In questi giorni ho lavorato qualche ora nella libreria di un’amica. La libreria, aperta solo da qualche mese, si trova in un centro commerciale a due passi da casa mia. In chiusura, ieri sera – la mia ultima sera in quel negozio – ho fatto quello che più o meno tutti i giorni facevo in un’altra libreria di un altro centro commerciale: ho contato soldi, ho spento le luci, ho abbassato la saracinesca, ho fatto qualche passo indietro per vedere che tutto fosse a posto, ho camminato per un corridoio e infine, alle nove e due minuti, sono uscito dal centro commerciale. Fuori c’era il buio di fine settembre. Ma non solo il buio. C’era anche una leggera foschia che sembrava volesse anticipare, come un monito o un dispetto, la nebbia invernale. “La nebbia”, ho detto a bassa voce guardando le macchine degli altri commessi. E allora, in quel momento, mi sono spaventato. Irrigidito ho pensato a me che ritorno a lavorare in un centro commerciale, a me che ancora chiudo un negozio alle nove di sera e che ancora abbasso saracinesche e guardo che tutto sia a posto e che ancora, come già ho fatto per tanti anni, percorro un lungo corridoio e esco e vedo la sera tra i lampioni, commessi in fuga con la loro sigaretta e nebbia. “No, basta buio e basta nebbia”, ho detto ancora a bassa voce.
Poi ho raggiunto la mia macchina. E proprio lì, prima di aprire la portiera e salire, è venuta a galla la parola “vita”: ma questa è la vita. La vita è, e sempre sarà una saracinesca da abbassare, un corridoio da percorrere, un’uscita oltre porte scorrevoli, un abbraccio umido e malinconico della nebbia di gennaio, o di febbraio. Sarà sempre così, è la vita. Oppure se non sarà nebbia sara qualcos'altro, ci saranno altre versioni, altre declinazioni della nebbia. Ma sarà sempre nebbia e corridoi, non si scappa. Sono salito in macchina, ho inserito la chiave, ho acceso il motore, ho guidato fino a casa, ascoltando musica, provando a cantare parole inglesi.