Un paio di settimane fa sono andato all’ufficio di collocamento per denunciare che ho perso il lavoro e che ne cerco uno nuovo. “Vai prestissimo, che ci sarà un sacco di gente”, mi ha detto una collega che in quell’ufficio ci era stata pochi giorni prima, e così, seguendo il suo consiglio, mi sono alzato dal letto prestissimo e sono andato ad aggiungermi all’esercito di persone che se ne stavano lì ad aspettare di essere chiamate per compilare un foglio, per rispondere rapidamente a un paio di domande e per fare una firma. Come potete immaginare, eravamo esseri umani adulti con ancora il sonno negli occhi, fragili, precari, vulnerabili, un poco arrabbiati, pronti o costretti a reinventarci. Lì in fila, poi, osservavo che gli uomini e le donne che stavano con me ad attendere erano vestiti male. La maggior parte di loro indossava pantaloncini corti e ai piedi calzava infradito o ciabatte da mare, come quelle che io tengo solitamente in casa. Molti di loro avevano tatuaggi sul polpaccio o sulle braccia o sul collo. Quando qualche ora dopo ho raccontato questa cosa ad un amico, lui mi ha detto: “Dai, per favore, smettila di fare lo snob”.
Ora, io non so esattamente cosa significhi fare lo snob ("chi ammira e imita ciecamente tutto ciò che è, o che crede sia, caratteristico dei ceti e degli ambienti più elevati", come dice il mio Zanichelli?), però vi assicuro che non volevo pensare cose “snob”. O almeno così mi pare. È solo che davanti all’ufficio di collocamento, alle otto di mattina, mi sentivo disperato, vulnerabile e fragile non perché la libreria per la quale ho lavorato per otto anni ha chiuso, non perché ho smesso di percepire uno stipendio, non tanto perché dovevo, e devo inventarmi un modo per pagare affitto, bollette e rate della macchina, ma mi sentivo in quel modo per tutte quelle persone tatuate e vestite male. Per la sciatteria. Guardandomi attorno ho pensato che se gli altri fossero stati più elegantemente disperati, più educati e seri nella loro precarietà o nella loro miseria, ecco, io in quel momento mi sarei sentito più fiducioso, meno triste e, appunto, meno precario e meno fragile. E per “eleganza” vi giuro che non intendo, come dice il mio vocabolario Zanichelli, “modo di vestire con gusto e raffinatezza”. Intendo dire…intendo dire…non lo so esattamente cosa intendo dire.