venerdì 27 aprile 2012

Dimezzato

del Disagiato

Magari non capita solo a me, libraio in un centro commerciale, e magari capita anche a voi, che ve ne state tante ore in un ufficio o chissà dove. Insomma, mi capita di vivere una sorta di schizofrenia intellettuale o esistenziale che consiste nell’essere fatto in un modo qui con voi, o in poltrona con un romanzo in mano, e fatto in un altro modo di là, dove lavoro con i miei colleghi in un negozio che vende libri. E con ciò non sto dicendo che in uno dei due posti (qui, in rete o in poltrona, e di là, in libreria) stia meglio o abbia più qualità, ma sto dicendo che non so assolutamente cosa significhi essere fatto sempre nello stesso modo, della stessa pasta, con gli stessi umori, con le stesse doti o con gli stessi limiti. E questo mio essere doppio, dimezzato, questo mio essere fatto in due modi diversi, dipende, in realtà, non solo dai luoghi ma anche dalle persone. O magari dal fatto che in un posto le persone le devo soddisfare e in un altro no. Mi sto ingarbugliando, lo so. Faccio fatica a dirvi quello che da un po’ di tempo provo per via, penso, di una consapevolezza più palpabile e concreta. 

Quando vado in libreria, nonostante sia blindato dal dovere, mi ritrovo a essere più superficiale, meno attento ai dettagli, meno curioso e meno perspicace. Devo vendere libri, io, e quindi non posso tentare di essere, appunto, curioso, attento e perspicace. Il commercio esige disciplina, una breve coerenza (una coerenza che sta tutta in quelle ore di negozio) e un’ostentata gentilezza. Forse una volta, quando il libraio doveva anche sapere qualcosa di libri, tutte queste doti servivano anche per catalogare, consigliare e, magari, giudicare. Adesso di sicuro no, visto che il mio lavoro è una sorta di catena di montaggio che non prevede bastoni tra le ruote, intoppi, iniziative mosse da uno spirito curioso, da un’intelligenza viva e frizzante.

Fuori dalla libreria, invece, le carte sono ben diverse, le regole del gioco si fanno un pochino più complicate. Quando sono a casa mia (con voi o senza di voi ma soprattutto leggendo quello che scrivete voi) non sono così vanitoso da dirvi che divento intelligente, curioso e perspicace e non sono nemmeno così incauto da affermare che voi tutte queste qualità le rappresentate meglio dei clienti che stanno in negozio, però, dicevo, devo ammettere che a casa, o comunque non appena esco dall’obbligo di vendere i libri che le case editrici e la televisione calano dal cielo, di scatto, come rispondendo a un riflesso, incomincio a cercare l’intelligenza, la curiosità e via dicendo. Tento di essere un po’ più vivo, ecco. 

Solo che i miei obiettivi, le sagome che mi passano davanti e alle quali voglio sparare, fanno parte di quel mondo che ho appena abbandonato e cioè il negozio, il commercio, la vendita, gli uomini antipatici che fanno tv o gli uomini simpatici che scrivono libri da raccontare poi in tv. E qui comincia la mia schizofrenia e non so se mi spiego: a casa, non pagato, spacco vasi e in negozio, stipendiato, li ricompongo. In negozio vendo quello che critico, che contesto, anche se è bene sottolineare che questo post non vuole fare luce sul commercio ma su un modo di stare al mondo. 

Un post un po’ caotico e difettoso ma che spero dica, a voi, quello che aveva intenzione di dire. E cioè voleva dire che è una vera fortuna poter separare il lavoro dalla vita privata ma a volte mi chiedo quanto sarebbe bello essere coerente, quanto sarebbe salutare, per me, essere dalla mattina alla sera la stessa persona, critica o non critica, leggera o pesante, rompipalle o non rompipalle. E quanto mi piacerebbe che voi foste i miei clienti. O forse è meglio di no. State dove siete. Che anche voi, in negozio, diventate gente diversa.

16 commenti:

  1. Bel post, Disagiato, assolutamente condivisibile. Il giorno che svolgerò un impiego in cui sono me stesso, mi sembrerà strano chiamarlo "lavoro".

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    1. Grazie Speaker. E il giorno che svolgeremo un lavoro in cui saremo noi stessi temo che ci sarà ugualmente fatica e tanta voglia di ritornare a casa ;)

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  2. Io sono ben fortunata. I libri non li vendo in una libreria, ma li consiglio in una biblioteca. E solo questo, anche o proprio perché lo faccio gratuitamente cioè per pura passione, mi permette di essere più me stessa al "lavoro" (cito Speaker) il pomeriggio che davanti ai fornelli la mattina.

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  3. Ma perché a me invece l'essere pagato mi regala autorità e una parvenza di competenza? Tu hai ragione quando parli di passione (ne ho tanta anch'io, credimi) però anche il denaro mi sembra un buon ritorno, un riconoscimento importante.

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    1. Il denaro come giusto riconoscimento del "talento" individuale.

      Il "talento", questa parola che comprende sia la moneta (ricordate il talento come moneta di scambio, un pò come i talleri o i sesterzi?) sia la qualità interiore di una persona.

      Riporto a questo proposito ed a titolo esplicativo un breve passaggio di Pietro Archiati:

      "
      La parola ταλαντον (tàlanton), nel suo duplice significato, sintetizza così il mistero del divenire dell’umanità: il talento come denaro è il simbolo dell’operare umano dentro al
      mondo della materia; il talento come facoltà interiore,
      come ingegno umano, indica il dinamismo della creatività
      dell’uomo in quanto essere spirituale.
      "
      (pag. 15 primo capoverso del volume "Economia e vita" di Pietro Archiati", qui: http://www.liberaconoscenza.it/zpdf-doc/2q2005/economia%20e%20vita.pdf

      Marco

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  4. a me non piacerebbe affatto essere la stessa persona sempre. Ci sono cose per cui - almeno per me - la coerenza è doverosa, ma altre in cui esigo una mia propria diversità. Nel lavoro bisogna fare bene il lavoro, il resto me lo tengo da parte per me stesso :-)

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    1. Hai ragione. Forse il trucchetto sta nell'imparare bene i ruoli, le battute e i tempi. È che mi sono accorto che la mia vita è nettamente divisa. Forse troppo. E a volte mi metto a parlare di "coerenza doverosa" o di Tobin tax con le mie colleghe. Dovresti vedere le loro facce.

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  5. Che poi, volenti o nolenti, non è che i due mondi siano completamente separati. Un po' di travaso c'è.

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  6. continuano i post dal sapore purandelliano...

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  7. pirandelliano, intendevo scrivere!

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  8. Non capisco tante cose, di quanto ha scritto. Per esempio, non capisco perché il libraio non debba saper qualcosa dei libri. Non capisco perché sia una fortuna separare lavoro e vita privata (nel senso di umore). Non capisco perché dovrei essere diversa in negozio, da lei, rispetto, che so, a teatro con i miei figli, o altrove. Sarò che perspicace, evidentemente, non lo sono affatto. Mai.

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  9. 1)In una libreria conoscere i libri aiuta ma non è necessario. Ci pagano per vendere libri e per esporli al pubblico non per consigliarli. Un pò come nella vita: essere intelligenti aiuta, ma non è necessaria per raggiungere il divano. In libreria, a lavorare, siamo in cinque e l'unico lettore (e non intendo lettore forte, ma proprio lettore) sono io 2)Separare la vita pivata da quella professionale serve, o è utile, a non portare i malumori del negozio a casa o della casa in negozio. Quanto ho detto è frutto di esperienza, mi creda. Non saper separare i due ambiti sigifica soffrire e, in alcuni casi, subire la depressione (che poi ha altre origini, va bene). 3) la mia era una mera e patetica chiusura ad effetto, Anche se è vero che quando la gente deve "fare acquisti" perde un po' della buona educazione che ha a teatro o con i figli (una risposta meno diplomatica e più di pancia è che il commesso guadagna, quando va bene, mille euro: quindi lo si può trattare di merda. I dentisti e i commercialisti non vengono mai trattati come vengono trattati i commessi, cioè di merda).

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  10. Sara' che ho una visione romantica e serena della vita, certo e' che fatico a distinguere il libraio dal dentista, fatta eccezione per il conto, che e' scandaloso non per se', ma per come le convenzioni lo accettano. Ho stima, dei librai, stima che deriva dall'aiuto che mi danno nella scelta di un libro e per la cultura che da li' traspare (di gran lunga superiore a quella del dentista, che spesso e' manovale e nient'altro). Vita privata e vita di lavoro dovrebbero essere comunque sempre, e a mio parere lo sono, espressione di ciò che si e'. Se uno e' scortese o distratto sul lavoro lo e' nell'intimo, quindi lo e' ovunque si trovi. Noi siamo la nostra peggior espressione, il resto e' finzione. Con noi come con gli altri.

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  11. Caro Disagiato, ho già fatto i complimenti per il blog anche a Scorfano. Vi ho scoperti per caso e siete già tra le mie letture preferite.
    Dieci ore al giorno fuori di casa per il lavoro dove ogni minuto devo guadagnarmi il rispetto (e non è cosa facile) e lotto per questo rispetto perchè lo do e quindi lo pretendo in cambio, prima di tutto come individuo e secondo perchè sono una donna e anche se abbiamo ottenuto la parità penso che un pò di rispetto non ci possa essere negato...
    Se potessi essere coerente con quello che sono avrei già perso il lavoro mille volte...Odio la strafottenza e l'arroganza, odio chi pensa di essere superiore agli altri e nel mio settore purtroppo la maggior parte delle persone è di questo tipo. Nessuna gentilezza o educazione nel chiederti informazioni o consulenze, tutto è dovuto manco fossi di proprietà di qualcuno. Per cui cosa fai? O insulti tutti oppure indossi un vestito di cortesia in modalità base e cerchi di essere gentile ma non troppo, disponibile ma non troppo, il giusto, cercando di sapere una cosa in meno piuttosto che una in più, onde evitare imbarazzi del richiedente... Che poi a pensarci bene se di base ci fosse rispetto ed educazione potrei essere davvero me stessa e sicuramente lavorerei ancora meglio di così, potrei dare molto ma molto di più...

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  12. Penso che l'atteggiamento più equilibrato sia quello di indossare quotidianamente un vestito di cortesia, come lo chiami giustamente tu. Senza esagerare, naturalmente, e salvaguardando la coerenza e i giusti umori. E poi, insomma, lo so che non è elegante dirlo, ma ci pagano; e questo, ammettiamolo, ci permette di essere coerenti, autentici e sereni anche a casa, nelle ore libere, fuori dal dolore che ci danno le nostre ore di lavoro.

    E poi grazie per i complimenti ;)

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)