Scusate se vi parlo ancora di Pier Paolo Pasolini ma scrivo solo poche righe per correggere il critico letterario Antonio D’Orrico, che ieri ha recensito La Nebbiosa (Il Saggiatore), una sceneggiatura di Pasolini (ora in forma di romanzo) rimasta pressoché inutilizzata e riportata alla luce. D’Orrico esordisce così:
Dopo Ragazzi di vita e Una vita violenta, Pier Paolo Pasolini non ha scritto più veri romanzi probabilmente perché girare film è più divertente e, per certi versi, meno faticoso (e poi è più mondano, tiene compagnia).
A parte la superficialità di queste considerazioni, c’è da dire che Pier Paolo Pasolini incominciò a far cinema negli anni sessanta per motivi che non hanno a che fare con la mondanità o la facilità, ma con una serie di problematiche (moltissime di queste trattate poi in Empirismo eretico, Garzanti, 1972) che stanno nel recinto della letteratura e della linguistica. Pasolini dichiarò che iniziò a stare dietro la macchina da presa per utilizzare una tecnica diversa, per abbandonare la lingua italiana, per una forma di protesta contro le lingue e la società e poi anche e soprattutto per riprodurre la realtà nella maniera più primitiva e autentica. Meglio, però, lasciar parlare lo stesso Pasolini. Vi accorgerete che la questione è ben più profonda, complessa e importante: