L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata follia. Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case. Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria.
E fu amore, un colpo di fulmine. Questo è un brano del primo capitolo, Il viaggio, del libro Se questo è un uomo, libro che avrebbe dovuto raccontarmi vicende distanti (nel tempo) e incredibili. E invece furono vicinissime e credibili. Successe che da lì in poi Primo Levi raccontò, e continua a raccontare, di me e di quello che sarei potuto diventare se non fossi stato un uomo buono e giusto. “Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera” scrive più avanti Levi. E pure io, lettore che vivo sicuro nella mia tiepida stanza, lettore che trova tornando a casa il cibo caldo e visi amici, faccio mia questa priorità: arrivare a primavera. Come un internato, pur non essendolo. Concluso il libro, compresi che si parlava di perseguitati anche per parlare di me, di mio padre, del mio vicino di casa e dell’edicolante in fondo alla via. Chiuso il libro, per la prima volta decisi di diventare un essere umano. Ci sono scrittori, ecco cosa volevo dire, che ci piacciono non solo per come sono fatti ma per come si muovono. Non per quello che dicono ma per come lo dicono. Riducono le distanze, si avvicinano a noi. Il passo che voglio fare ora è azzardato, il paragone quasi vertiginoso.
Mario Sconcerti, naturalmente per chi ancora non lo conoscesse, è un giornalista e opinionista sportivo. Scrive, poco, per il Corriere della Sera ed è ospite fisso di un programma sportivo di Sky Sport. Ha scritto libri bellissimi: Storia delle idee del calcio, La differenza di Totti e, uscito poco più di un mese fa, Il calcio dei ricchi. Ci sono poi anche altri libri (uno su Roma e Romolo, che nulla c’entra con lo sport) e, come avrete capito, scrive di calcio. Solo che non scrive esclusivamente di calcio. Il pallone, i giocatori, le tattiche, gli schemi, i soldi e le scelte sono, nei libri di Sconcerti, una conseguenza delle scelte che abbiamo fatto noi, più o meno tifosi, nel mondo, nella nostra società, nella nostra casa e nella nostra stanza. Nei suoi libri si parla di noi come punto di partenza per arrivare sui campi da gioco, sugli spalti, sulle panchine. Una nazionale di calcio è, sostiene Sconcerti, come è il suo popolo: gioca in difesa (ad esempio la Germania che esce dalla guerra) se il suo popolo è, in quel momento, sulla difensiva; gioca in modo estroso (il Brasile), se il suo popolo è caloroso e per nulla timido; se una nazione è felice gioca un calcio felice, se una nazione è triste gioca un calcio triste. Il calcio nasce e fiorisce dove c'è il mare, dove ci sono commercianti e marinai.
Mario Sconcerti, naturalmente per chi ancora non lo conoscesse, è un giornalista e opinionista sportivo. Scrive, poco, per il Corriere della Sera ed è ospite fisso di un programma sportivo di Sky Sport. Ha scritto libri bellissimi: Storia delle idee del calcio, La differenza di Totti e, uscito poco più di un mese fa, Il calcio dei ricchi. Ci sono poi anche altri libri (uno su Roma e Romolo, che nulla c’entra con lo sport) e, come avrete capito, scrive di calcio. Solo che non scrive esclusivamente di calcio. Il pallone, i giocatori, le tattiche, gli schemi, i soldi e le scelte sono, nei libri di Sconcerti, una conseguenza delle scelte che abbiamo fatto noi, più o meno tifosi, nel mondo, nella nostra società, nella nostra casa e nella nostra stanza. Nei suoi libri si parla di noi come punto di partenza per arrivare sui campi da gioco, sugli spalti, sulle panchine. Una nazionale di calcio è, sostiene Sconcerti, come è il suo popolo: gioca in difesa (ad esempio la Germania che esce dalla guerra) se il suo popolo è, in quel momento, sulla difensiva; gioca in modo estroso (il Brasile), se il suo popolo è caloroso e per nulla timido; se una nazione è felice gioca un calcio felice, se una nazione è triste gioca un calcio triste. Il calcio nasce e fiorisce dove c'è il mare, dove ci sono commercianti e marinai.
Mario Sconcerti prende e mette questo sport nella storia, togliendolo dalle mani della cronaca, che è dimensione fredda, nervosa e dalla vita breve. Il calcio non va solo raccontato ma anche compreso e risolto. È più forte Pelé o Maradona? Difficile, difficilissimo rispondere, visto che hanno giocato in tempi e posti diversi. Non si possono fare paragoni così difficili, scrive in Storia delle idee del calcio. Però, aggiunge sconcerti, dobbiamo provarci, dobbiamo tentare di fare storia, di avvicinare gli avvenimenti, di unire i puntini, di intervenire e giudicare i fatti. Dobbiamo tentare di avvicinare ciò che ci è distante. E lo farà, Sconcerti, sia riflettendo sui numeri e le statistiche, sia piegandosi su di noi, che siamo cittadini, pubblico e spettatori. Il calcio è fatto in tal modo perché noi siamo fatti in tal modo.
Perché in Italia gli stadi oggi sono vuoti? È giusto che in un paese come il nostro esistano ancora gli stadi comunali? Perché la gente smette di tifare la propria squadra? Quanto c’entrano, in Europa, i soldi nelle mani di pochi ricchi presidenti con noi, la nostra televisione, le nostre abitudini e il nostro calcio? Il calcio dei ricchi risponde a queste e altre domande: molti puntini vengono uniti, molte immagine emergono dal nulla. E vi posso garantire, se non siete amanti di questo sport, che nell'attenta indagine ci siamo anche noi cittadini e spettatori. Ma questo l’ho già detto.
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Ora posso chiedere scusa. Chiedo scusa per l’inizio di questo post e cioè per aver usato Primo Levi per arrivare a Mario Sconcerti e ai suoi libri. Sono due personaggi che, se accostati, non fanno scintilla, che nulla c’entrano l’uno con l’altro. Primo Levi, come si sa, è uno delle più importanti personalità del novecento, mentre Sconcerti molto probabilmente si scaverà solo un piccolo e importante posticino accanto ai più grandi giornalisti di settore: uno ha raccontato la più grande persecuzione della storia, l’altro scrive di calcio. Un azzardo conciliarli, quindi. Allora perché sono partito da Primo Levi? Quando Primo Levi scrive del rapporto tra vittime e carnefici sembra che parli di me e dei miei tanti capi: tra colui che deve eseguire gli ordini e coloro che invece gli ordini li formulano e li impartiscono.
La mia è un’esagerazione che sulla linea del tempo, nonostante siano passati anni dalla sua morte, è già stata rimproverata e scongiurata. A chi gli suggeriva un paragone tra le condizioni dei detenuti nelle carceri italiane e i prigionieri nei campi di concentramento, Levi disse: non si fa. Sono due realtà imparagonabili, furbe e giornalisticamente ruffiane. So quindi che la mia vita non può essere declinata in un certo verso e che io non ho mai patito e mai patirò come un ebreo destinato al forno crematorio. Ma il lettore spesso è capriccioso, ha dei vizi che cambiano forma e che non si risolvono. Uno dei miei più grandi vizi è quello d'impossessarmi di certe questioni, anche quando il mio sfondo e la mia scenografia è nettamente differente da quella di altri protagonisti. Penso alla prossima primavera, come facevano gli ebrei prossimi al rogo. Mentre lavoro, in negozio, tra i libri, al caldo, mi sento in compagnia di Pikolo, tra le righe di uno dei più bei capitoli della nostra letteratura, "Il canto di Ulisse". Anche per me, nonostante la mia vita aristocratica, esiste un Infin che 'l mar fu sopra noi rinchiuso.
Mario sconcerti quando scrive di giocatori parla di me e di voi. Non posso farci niente, vorrei evitare prolungamenti patetici fuor di pagina, ma le cose stanno così. Quando parla di Totti mi vengono in mente un paio di amici, due o tre politici: "Totti, come Del Piero, ha sempre avuto ragione a prescindere. La gente è stata sempre con lui. Non è mai stato solo. Non è dovuto scendere in piazza per difendere la propria idea. Quindi ha potuto fare quasi a meno di averne" (Storia delle idee del calcio). E poi, con tanta presunzione, qui sembra che mi stia facendo un rapido ritratto: "Del Piero è un attaccante rapido molto intelligente, moderno, con colpi da fuoriclasse puro. Ma solo colpi" (La differenza di Totti). Credetemi, non mi sono mai sentito un fuoriclasse ma, come voi, penso di aver avuto nella mia vita se non colpi da fuoriclasse almeno un paio di colpi vincenti. Ma solo colpi e basta. Nelle pagine di sconcerti si incontrano spine, e capita quindi di stringere la bocca e spalancare gli occhi. Si parla di calcio, è vero, ma tramite una buona lettura dei sentimenti. Tramite noi. Potrei continuare con le citazioni, ma le citazioni a cascata sono strizzatine d’occhio che conducono all'equivoco, battute buone per fare bella figura. Quindi mi fermo. Anche se.
Anche se c’è un’ultima citazione che voglio fare e che potete trovare nell'ultimo libro di Sconcerti, Il calcio dei ricchi, in un breve capitolo dedicato a Guardiola, che è stato recentemente vincente allenatore del Barcellona ma soprattutto (soprattutto per me, s'intende) anche giocatore del Brescia. Sconcerti racconta:
Guardiola andò al Brescia nel suo autunno di calciatore. Era stato tutto e stava per diventare polvere. Cambiare vita, un vuoto che la nuova gioventù ha saltato solo perché tutta la gioventù è diventata un vuoto. Ma Guardiola venne in Italia per capire cosa stava diventando e dirsi che, qualunque cosa fosse, l'aveva scelto lui. Ci vuole umiltà a ricominciare dal basso, molto di più che a ricominciare in un altro mondo. Brescia era la coscienza di un limite raggiunto. Mazzone, il centro storico di Brescia, la pasticceria in cui ogni mattina faceva colazione, l'aria polverosa dell'orgoglio da grande città, sono stati l'acqua per i semi di una cultura che Guardiola aveva già dentro di sé, gentile, sobria e dura, ma che doveva rinnovare. Non giudicatelo mai come un uomo di solo calcio. Guardiola è destinato a qualcosa di diverso. Ha un senso epico della vita, la convinzione di avere una missione. Non si nega il sacrificio per questo, sta solo cercando la missione giusta, quella definitiva. In questo anno sabbatico non si sta riposando dal calcio, non ci si riposa da se stessi.
“Non ci si riposa da se stessi”. E quando, dopo queste splendide righe, ho letto “non ci si riposa da se stessi”, ho sentito una leggera scossa nelle viscere. Ricordo di essermi alzato dalla sedia, con il libro in mano, e di essere andato davanti allo specchio, in sala, immobile, gli occhi fissi nei miei occhi fissi. “In bocca al lupo”, mi sono detto.
Tanti spunti, tanta carne al fuoco in questo post sconcertante seppur non privo di una certa levità.
RispondiEliminaMi chiedevo la ragione di cotanti mesi di assenza.
RispondiEliminaDolore è la consapevolezza dell'illusione, dopo albe nate e immaginate per più alti scopi. O scopi altri.
E poi il mio pensiero va alle formiche. Che tragedia, l'oggi.
Ciao a te e a chi non ha bisogno di chiarimenti, in una comunanza di sensazioni che consente l'ermetismo, e ciao anche a chi pensa che io farnetichi, e che è certamente felice.