Durante e dopo la crisi economica argentina che cominciò nel 2001, molte fabbriche abbandonate dagli imprenditori vennero - oggi possiamo dire con successo – occupate e riorganizzate dagli operai che nel frattempo erano rimasti senza lavoro e quindi senza alcuna fonte di sostentamento. Lo racconta Aldo Marchetti nel suo libro "Fabbriche aperte" e in un’intervista pubblicata da MicroMega. Nel 2002, ci dice Marchetti, i lavoratori ridiedero vita a circa 130 fabbriche, nel 2012 invece erano circa 210 le imprese portate avanti non da una cooperativa ma da una autogestione. Perché tra cooperativa e autogestione c’è differenza: nella prima c’è una democrazia delegata, nella seconda una democrazia partecipata; nella prima le decisioni vengono prese da un consiglio d’amministrazione, nella seconda invece da tutti i lavoratori. C’è un passo dell’intervista che mi ha interessato particolarmente:
Parliamo di un processo estremamente complicato, che ha visto anche un profondo conflitto con le forze dell’ordine, le istituzioni, la magistratura, il governo. Molte di queste fabbriche occupate infatti sono state prese di mira dalle forze di polizia chiamate a svuotarle dei lavoratori per riportarle nelle mani degli imprenditori. A quel punto interi quartieri sono scesi in lotta per difenderle. Bisogna infatti considerare che nel frattempo in Argentina erano sorti movimenti sociali di grande portata, come quello dei disoccupati, delle donne, ecc., che in questo clima di crisi profonda hanno costituito un elemento sociale di coesione e solidarietà che ha consentito alle imprese recuperate di restare in piedi. In molti casi il quartiere, i piqueteros o le assemblee popolari dei quartieri hanno proprio fatto barricata davanti alle porte delle fabbriche, le hanno presidiate per difenderle materialmente dall’irruzione delle forze di polizia. Insomma, attorno a queste imprese recuperate, si è creato un movimento di grande solidarietà.
Mi ha commosso il fatto che a sbarrare la strada alla polizia e a difendere i lavoratori siano stati gli abitanti dei quartieri in cui stanno le imprese, abitanti che sicuramente avranno pure avuto degli interessi a prendere una posizione forte. Oltre al lavoro, quindi, è stata recuperata anche la solidarietà tra compaesani o concittadini, in un grave momento di difficoltà. Dove abito io, in un paese vicino a Iseo, non ci sono persone che cercano da mangiare nei cassonetti dell’immondizia e nessuno, credo, chiede la carità per strada, ma sta accadendo, invece, che chi prima lavorava in fabbrica – e in fabbrica non ci lavora più perché non c’è più lavoro – ora fa il pane dalle due alle cinque del mattino in un laboratorio (un mio vicino di casa mi ha raccontato questo), chi prima faceva l’imbianchino, come un signore che abita nella casa difronte alla mia, ora fa il magazziniere in un supermercato del paese, tre volte alla settimana e per poche ore. Insomma, mi sembra di aver capito che si è creata una piccola rete adatta ad ammortizzare uno schianto. O forse questa rete in parte c’era già prima, quando le vite non erano in bilico.
L’esperienza argentina letta in questa bella intervista mi ha detto qualcosa anche su quanto sta accadendo in questi mesi a Brescia, dove sono stati istituiti i “Consigli di quartiere”. I rappresentanti e gli esponenti di questi consigli possono essere eletti dagli abitanti di quel pezzo di territorio. Tutti, anche gli stranieri. Ecco, la Lega non vuole che gli stranieri votino e per questo ha tra i suoi progetti quello di fare un referendum, contro. Per qualcuno, a Brescia, quello della Lega è puro razzismo, per qualcun altro solo una triste e scontata propaganda. Sta di fatto che a me questa iniziativa sembra vada nella direzione opposta a quella che fino ad ora ho inteso come “solidarietà” e che qui, dove abito io, ha protetto qualcuno. Non che ci sia un collegamento o una vera vicinanza tra quello che è accaduto ormai più di dieci anni fa in Argentina e quello che sta accadendo oggi nel mio paese e nella mia città, ma ho come l’impressione che da quello che è successo in quelle fabbriche e intorno a quelle fabbriche, noi dovremmo ricavarci qualcosa. Non sono così retorico da scrive“insegnamento”, ma la tentazione di farlo è forte. Forse basta la parola “solidarietà”, che può rinvigorirsi solo includendo anche chi italiano non è, per mezzo della sua totale partecipazione e presenza, e del suo voto. Questo, utilizzando ancora la metafora, per tessere una resistente rete di salvataggio da mettere sotto di noi. "Un uomo non è un frutto!...Non puoi mangiare l'arancia e gettare la buccia", scriveva Arthur Miller in "Morte di un commesso viaggiatore".