martedì 18 gennaio 2011

Una grammatica del dolore

di lo Scorfano

Leggere i libri non serve a niente. Anche fare una passeggiata con un amico sul lungolago, parlando del futuro e del passato e della vita che ci sfugge di mano, non serve a niente. Studiare il latino, naturalmente, non serve a niente. Anche studiare la geografia non serve a niente. Così come non serve a niente conoscere il principio di indeterminazione di Heisenberg o le quattro equazioni differenziali alle derivate parziali di Maxwell. Mangiare un gelato, alle due del pomeriggio, con la tua donna, quando è luglio e fa caldo e il pomeriggio si preannuncia lungo e immobile come un acquario, non serve a niente. Fare a palle di neve con i bambini tuoi vicini di casa non serve obiettivamente a niente. Rileggere le poesie di Fortini, una notte che non riesci a dormire non serve a niente; e soprattutto non serve a dormire, anzi. Ballare il tango non serve a niente.

(«A me però piacerebbe molto saper ballare il tango…»
          «Certo, anche a me piacerebbe; ma non è che serva, insomma.» «Però, potremmo iscriverci a un corso, che ne dici?» «No guarda, proprio no.» «Perché no?» «Perché ho da fare altre cose, perché non mi interessa abbastanza.» «E invece ti  interessa molto scrivere un elenco di cose che non servono a niente?» «Sì, anche quello.» «Ah, be’, complimenti.»)

Fermarsi un attimo, nella nebbia in autostrada, fumare una sigaretta in una piazzola di sosta, con il rumore dei Tir che sfrecciano così vicini che sembrano un tuono minaccioso, con l’odore della pianura umida che sembra invaderti e allagarti i polmoni, e trovarsi a pensare che la bellezza sta a volte in luoghi e tempi che non si potevano prevedere, non serve a niente. Pensare agli amici che non vedi più da tanti anni non serve a niente. Disporre in ordine i libri sugli scaffali della propria libreria non serve a niente. Declinare gli obiettivi e le competenze sulla griglia di valutazione dei temi dei tuoi alunni non serve assolutamente e niente. Incantarsi davanti alla Vocazione di san Matteo di Caravaggio, in un angolo umido nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, circondati da persone e senza nemmeno sapere più che sono persone, perché quella luce sulla tela è più forte di qualsiasi persona, non serve a niente. Amare la tua donna meglio che puoi non serve a niente.

(«Eh no, adesso esageri!» «Ti dà fastidio l’ultima frase?» «Sì che mi dà fastidio, per forza: mi dà molto fastidio.» «Capisco, però un po’ è vera.» «No, non è vera: perché se tu mi ami io sono felice; e quindi il tuo amore serve a me per essere felice.» «Però, senza che ti offendi, nell’ottica di una storia universale di miliardi e miliardi di anni, e sapendo che tutto è destinato a scomparire per sempre nel nulla, compresi i quadri di Caravaggio, be’, la tua felicità vale quanto la scoreggia di un Mammut siberiano di duecentocinquantamila anni fa; e quindi non serve a niente.» «Sì, ma io non sono un mammut siberiano e non vivo nell’ambito di una storia universale di miliardi e miliardi di anni, io vivo qui e ora; e la mia felicità mi serve ora.» «Vabbè, d’accordo. Allora facciamo che lascio anche quella frase ma dico che esagero, d’accordo?» «Va bene. Ma sappi che esagerare non serve a niente.»)

Scrivere il nome di lei su un foglio, quando sei da solo e senti una mancanza che nemmeno sai definire e capisci in quel momento quanto la ami, non serve a niente (dovevo scriverla questa, scusatemi, altrimenti non mi perdonava più; benché anche il suo perdono, tutto sommato, non serva a niente). Incantarsi al sole della Sicilia, davanti al tempio di Segesta, con un vento di maestrale e una luce che quasi chiudono gli occhi, non serve a niente. Rileggere per la quinta volta tutta la Commedia di Dante non serve a niente. Chiedere scusa a un amico, perché forse quella volta ti dovevi controllare, non serve a niente. Controllarsi quando è il momento di farlo non serve a niente. Negare l’evidenza non serve a niente; spiegarla e accettarla nemmeno. Studiare con pazienza l’ecocardiogramma di un paziente, e trovare la diagnosi giusta e curarlo non serve a niente, se non a salvargli la vita: ma la vita di quel paziente non serve a niente, come non serve la tua e quella di nessun altro. Essere gentili non serve a niente. Credere di aver capito l’Eneide di Virgilio non serve a niente; se poi lo credi, ma non è vero che l’hai capita, non serve a niente allo stesso modo, perché non ci può essere una graduatoria dei tipi di niente. Imparare a contare fino a dieci in croato non serve a niente. Neanche in inglese o tedesco o cinese.Vincere 60 milioni di euro al superenalotto non serve a niente.

(«A me servirebbe parecchio, in realtà.» «E per cosa?» «Avrei molti più soldi e potrei fare molte più cose e sarei più contenta.» «Ho capito, ma abbiamo già detto che la tua felicità non serve a niente.» «E certo! Se fai così è ovvio che niente serve a niente. Ma cosa ottieni? cosa vuoi dimostrare?» «Boh, non lo so.» «Ecco, appunto, sarebbe meglio che lo sapessi: quello che stai facendo non serve a niente.»)

Imparare a distinguere i metri tradizionali della poesia italiana del Quattrocento non serve a niente. Conoscere il cambio euro-dollaro non serve a niente. Viaggiare non serve a niente. Stare meglio non serve a niente. Ridere non serve a niente; e nemmeno piangere e nemmeno restare impassibili. Baciare la tua donna non serve a niente. Chiamarla al telefono solo per farle un saluto non serve a niente. Assicurare il miglior futuro possibile ai tuoi figli non serve a niente. Che poi loro cercheranno di assicurarlo ai loro figli e questi ai loro figli e questi altri ai loro altri figli e i figli dei figli dei figli dei tuoi figli ai loro figli… e non sarà servito a niente. Imparare i nomi dei vitigni della Loira non serve a niente. Sapere che Michael Haneke è un grande regista non serve a niente. E non serve a niente imparare che il frutto del peccato non era affatto una mela. Conoscere il mondo (ciò che per sua medesima natura ogni essere umano è portato a fare, ipse dixit) non serve a niente di niente di niente.

Ma però.

(«Ma però?»)

Ma però ogni singola cosa, ognuno di questi gesti, e milioni di altri che non so nemmeno immaginare, tutti insieme, e anche tutti separati, privi di senso e di legami, sono tutti una specie di alfabeto. Un geroglifico solo a tratti comprensibile, un linguaggio immenso e labirintico che cerca di dire qualcosa senza riuscirci mai del tutto, ma lasciandoci sperare di poterlo sempre dire. Sono una grammatica del dolore, ecco cosa sono. Un’imperfetta, assurda, piena di regole e di eccezioni, soprattutto piena di continue e imprevedibili e irragionevoli eccezioni, grammatica del dolore. Nell’illusione assurda che almeno quello, almeno tutto il dolore, vaffanculo, serva a qualcosa.



(Grazie a G. che, durante una cena passata a casa di Claudio a parlare di libri, mentre facevamo una delle tante cose che non servono a niente, ha provato a convincermi del fatto che la letteratura non è altro che una grammatica del dolore. E ci è riuscito.)

12 commenti:

  1. Quel romantico hic et nunc lascia pensare che anche questo intervento serva a qualcosa. Secondo me.
    E comunque grazie, Professo'.

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  2. Ma guarda! Pensavo si stesse parlando della vita, della sua gratuità, delle sue sfumature. Una grammatica della felicità, pensavo. O almeno della bellezza.

    Però nel testo ci sono segnali che non dirò, che lasciavano presagire una fine infausta, dolorosa. Un'ansia da prestazione nascosta e quella sì molto dolorosa. Li ho visti solo io?

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  3. Sono d'accordo con la tua donna.

    Avevi dubbi?

    ;)

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  4. Non me la sento di commentare la grammatica del dolore, che sento vicina all'antropologia di Pascal e ancora prima alla teologia di Qoelet.
    Ho voglia di commentare la bellezza dello scritto, quella sì. E' un piacere leggerti.

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  5. Non ho gli strumenti per scrivere un commento all'altezza del post. Per cui dico solo che mi sono commossa...

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  6. Tutto vero, vera la storia della grammatica del dolore, ma ha ragione la tua donna!

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  7. (Detto tra noi, senza che lo sappia nessuno di quelli che leggono solo il post, anch'io, come Thumper e Leonardo, penso che abbia ragione la mia donna.)

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  8. @comizietto
    Su, dai, non essere così scontroso: rivelaci almeno un paio di quei segnali, che sono curioso... ;)

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  9. (Ah, dimenticavo: per il tango un po' c'hai ragione, però non sai cosa ti perdi...)

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  10. Anche a me piacerebbe molto saper ballare il tango. Potremmo organizzare un corso virtuale per i lettori del blog, cosi', tanto per sentirsi meno a disagio...
    P.S.: contraddire sempre una donna non serve a niente:e' lei che decide.

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  11. @scorfano
    Scusami se sono scontroso è che qui mi par di leggere un pessimismo cosmico che forse adesso non vorrei leggere.

    (Comunque ho pensato a cosa ci farei se vincessi 60 milioni di euro. Ho preso in seria considerazione di darli tutti ad emergency e sono grato che questa eventualità - la scelta, intendo - sia molto remota.)

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  12. @comiziante
    L'aggettivo scontroso voleva essere usato in modo ironico. Mi rendo conto che invece suona solo un po' maldestro, abbi pazienza.

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(Con educazione, se potete. E meglio ancora se con un nickname a vostra scelta, se non vi dispiace, visto che la dicitura Anonimo è brutta assai. Qualora a nostro parere doveste esagerare, desolati, ma saremmo costretti a cancellare. Senza rancore, naturalmente.)