Si parte per staccare la spina, per risposarsi e per vedere posti nuovi. I perché di un viaggio sono molti e non sto qua a rintracciarli tutti, visto che già ci ho provato parecchio tempo fa. Rimane che secondo me il movente più valido se ne sta nel pensiero di un certo T. Wilson: “C’è chi viaggia per conoscere persone nuove. Io viaggio per dimenticare quelle che già conosco”. Significa far perdere le tracce, dimenticare, scappare, andarsene. Con il viaggio ci illudiamo di ricominciare da capo la nostra esistenza, anche se per una sola settimana o per dieci giorni o per un mese, consapevoli del ritorno, e consapevoli dell’esistenza dell’ingranaggio indistruttibile che ci fa tanta paura. Però fingiamo che l'ora d’aria possa servire a ricapitolarci, nonostante tutto. E bene facciamo a fingere.
Una settimana fa sono partito per una breve vacanza con le stesse intenzioni di sempre e con la solita frase di Wilson in testa: disperdersi e mettersi alle spalle le persone, senza alcuna voglia di conoscerne di nuove. Ieri sera sono ritornato, con città e mare e sole ancora negli occhi. Ho svuotato la valigia, ho sistemato su una mensola un paio di ricordi, ho appeso al muro una cartolina, ho riguardato con un po’ di nostalgia le fotografie che sempre mi daranno un poco di nostalgia. Ho guardato il mio appartamento e soprattutto ho fissato la libreria, i libri addormentati sulle mensole. E a quel punto ho cominciato a sentire un suono strano, un piccolo dolore in pancia. Ho pulito un paio di bicchieri che avevo lasciato sul lavello prima di partire, ho fatto una telefonata e ho scritto una mail, dimenticando per qualche minuto il suono e il dolore. Poi, forse non per sbaglio, ho riguardato i miei libri, che hanno fatto ritornare la strana tensione di prima, il suono e la fitta. Non solo i libri, ho guardato, ma anche la mia scrivania, il televisore, la poltrona e le altre cose che rendono lievi i miei giorni. Senza tutte queste cose, ho pensato, non potrei stare bene. E allora ieri sera, nel centro di casa mia, ho capito che lentamente, secondo dopo secondo, i miei libri, che tanto mi hanno dato, mi stavano riprendendo per la manica e si stavano rimpossessando di me.
Qualche giorno fa ho visto in mare una piccola pianta che avvolgeva con le sue corte dita qualsiasi cosa la sfiorasse. Forse era il movimento dell’acqua a renderla vorace, non so dire, ma seppelliva le conchiglie e i sassolini che facevo cadere, dall'alto, in acqua. Ecco, ieri ho sentito che quella piccola e per niente pericolosa pianta non era solo in mare ma anche in casa mia, nelle mie poche stanze, sulle mensole, attaccata alle pareti, sul mobile, sulla scrivania, nella libreria. Gli oggetti, con un dolce ondeggiare, mi stavano prendendo. Le cose non mi appartengono, sono io che appartengo a loro. E per questo mi piace chiudere la porta di casa e partire senza voltarmi: per scappare dall'alga vorace e insidiosa senza la quale, normalmente, non potrei stare.