Uno di miei momenti migliori della giornata è il mattino, quando mi sveglio. Faccio così: spengo la sveglia (anche se, lo ammetto, ultimamente non sempre programmo, di sera, una sveglia), rimango ad occhi aperti qualche secondo, mi alzo, metto la caffettiera sul fuoco (caffettiera preparata la sera prima), ritorno a letto, attendo il fischio della caffettiera, mi rialzo, spengo il fornello e poi verso il caffè in una tazza, che bevo in piedi, guardando fuori dalla finestra o camminando per casa. Da sempre mi piace fare questi gesti, accendere, attendere il rumore del caffè e rialzarmi. Non so se chiamarla felicità, ma comunque le si avvicina.
Questa mattina, dopo aver bevuto il mio caffè, ho letto alcune righe di un bel libro di Clara Usón, "La figlia". Il brano racconta di un certo Veljko, che è stato in guerra e che dalla guerra è ritornato a dir poco frastornato:
Veljko non si è rifatto una vita; non ha combinato niente di buono, gli è sembrata un’impresa impossibile e ancora oggi, quando sente il fischio della caffettiera che annuncia che il caffè sta uscendo, si mette a tremare e gli viene un attacco di tachicardia. “È lo stesso rumore che fa un proiettile quando sta per centrarti”, spiega, “questo è il suono della guerra”.
Ecco. Ho letto queste parole dopo il mio personalissimo momento migliore della giornata, che gira intorno al fischio del caffè. Credetemi, non so spiegarvelo bene, ma un po’ mi sono sentito in colpa per tutti questi caffè, per la mia felicità mattutina. Oppure mi sono sentito come una persona che ha abbassato la guardia, che non ha tenuto conto di certe cose. Continuerò a vivere il momento del fischio della caffettiera come un bellissimo momento, ci mancherebbe, ma d’ora in poi, grazie al libro, lo farò considerando anche gli altri e lo farò con un po’ più di tormento, di ansia e consapevolezza: la mia felicità per tutti i Veljko del mondo significa infelicità. Utilizzerò questa consapevolezza non per essere meno felice ma, anzi, per esserlo di più.