venerdì 21 giugno 2013

Il sospetto

del Disagiato

Vicino al centro commerciale dove sta la libreria, c’è un piccolo ristorante indiano che fa anche panini kebab. A volte - quando ho finito di lavorare, ho fame e pochissima voglia di cucinare - faccio una piccola deviazione dalla strada che mi riporta a casa e mi fermo per prendere un panino. Vado lì, in quel posto, sia perché i kebab sono buoni sia perché i gestori del locale, marito e moglie, sono due persone gentili e affabili, e a me avere a che fare con persone gentili e affabili migliora la vita. Tre anni fa circa, quando sono entrato per la prima volta in quel ristorante, io e loro abbiamo facilmente abbattuto qualche ostacolo linguistico e rintracciato un terreno comune fatto anche da discorsi più o meno superficiali e da qualche metaforica pacca sulla spalla. Loro grosso modo mi hanno raccontato la loro vita e io grosso modo ho raccontato la mia. Tutto questo per tre anni e solo per pochi minuti. Non siamo diventati amici, sia chiaro, però, come si suo dire, tra di noi c’è stata subito intesa. A volte vengono in libreria con i due figli e allora, molto volentieri, sospendo il mio lavoro per salutarli, per chiedere come vanno le cose e via dicendo. 

Una settimana fa circa sono andato al ristorante per farmi preparare un kebab da portare a casa. C’era solo la moglie, e con lei, per qualche minuto, mentre aspettavamo la giusta cottura della carne, ho parlato della crisi economica che sta prendendo a pugni i commercianti del centro commerciale. Poi è successo che la signora ha insacchettato il panino, me l’ha messo tra le mani e io, finito di dire quello che stavo dicendo, l’ho salutata per tornarmene a casa, dimenticando di prendere il mio portafogli dalla tasca, per pagare. Vi chiedo il favore di credermi: non volevo rubare. 


Non volevo assolutamente scappare o fare il furbo. “Guarda che non mi hai dato i soldi”, mi ha detto lei con voce aggressiva e io ho fatto un sorriso nervoso, le ho chiesto scusa cinquanta volte in pochi secondi, ho pagato e poi, a testa bassa, ho risalutato e me ne sono andato. “Non fa niente”, mi ha risposto lei con il tono di chi sta ritornando ad essere gentile. Però quel “guarda che non mi hai dato i soldi” è stato, vi giuro, come un proiettile. Mi ha fatto sentire un ladro. Mi ha fatto soprattutto sentire come se io e lei non ci fossimo mai visti o conosciuti prima. Davvero, credetemi: io non volevo fuggire senza pagare. La mia è stata una stupida distrazione che forse sì, se analizzata bene, se messa sotto i riflettori delle teorie della psicoanalisi, avrà avuto anche un significato. Ma io non volevo scappare senza pagare. Non sono un ladro come ha voluto farmi sentire la signora indiana che non so se rivedrò mai più. 

Ieri sera ho visto un film di Thomas Vinterberg che s’intitola Il sospetto (Danimarca, 2012). Scusatemi se ho utilizzato un modo un po’ troppo particolare per scrivere una recensione (e poi questa non vuole essere una vera e propria recensione ma solo un suggerimento), ma mentre guardavo questo film pensavo a me, al panino, alla signora indiana, al conto non pagato, all'aggressività improvvisa e subito rientrata che ne è seguita. Il film parla di altro, di accuse ben più pesanti (un maestro viene accusata dai suoi stessi amici e colleghi di aver molestato una bambina) ma la colpa, grossa o piccola che sia, la conosco io e molto probabilmente la conoscete voi che state leggendo. Ieri sera, guardando il film, mi sentivo meno solo e meno colpevole (vi giuro che il panino non volevo rubarlo) e molto probabilmente guardare un buon film come Il sospetto serve a questo: a sentirsi meno soli, meno colpevoli e, aggiungo, più consapevoli dell’esistenza di quella linea che spesso, e magari senza dare segnali, ci divide drammaticamente, ci fa distanti. Io di qua e te di là.