martedì 27 agosto 2013

E di nuovo cambiano le cose



Una volta qui c’era un'insegna con scritto Libreria. Una libreria non è una casa ma solo un negozio, un posto qualunque dove fare affari, però mi vengono in mente alcune parole di una bella canzone di Ivano Fossati che fanno così: Ma sapere dove andare è come sapere cosa dire, come sapere dove mettere le mani… Ecco, mi girano in testa queste parole, anche se di mezzo non c’è un amore, anche se il locale che reggeva l’insegna non era una casa ma solo un libreria, un posto qualunque dove fare affari.

lunedì 19 agosto 2013

Stare insieme

del Disagiato

La settimana scorsa mi è capitato di stare tre giorni da solo, senza vedere amici e parenti. Di mattina leggevo un libro, di pomeriggio andavo in libreria a fare il mio mestiere (e lì, sì, qualcuno vedevo, ma si trattava di lavoro) e poi, di sera, me ne tornavo a casa, ancora a leggere un libro o a guardare un film. Ecco, questo l’ho fatto per tre giorni consecutivi. Ho ricevuto e fatto qualche telefonata, ho scritto un paio di mail, ho detto mezze parole d’occasione ai miei vicini, ma per il resto, come vi ho già detto, me ne sono stato da solo, senza ospitare in casa amici o uscire con qualcuno anche solo per fare due passi. Come potete immaginare, non sono stati giorni interessanti ed eccitanti. Sono giorni che già tra un mese dimenticherò, ne sono sicuro. Vi devo confessare, però, che stavo bene; che, se mi passate l’espressione, mi sentivo in armonia con me stesso e la vita. Ero sereno, insomma. I miei pensieri in quei tre giorni erano pacati e lucidi. Mi ricordo che ad un certo punto ho fatto anche un pensiero molto profondo ed intelligente, che a me, credetemi, di pensieri profondi e intelligenti non capita spesso di farli. Prima di andare a letto, uscivo in balcone e guardavo le stelle in cielo, che erano bellissime. Poi, dopo un profondo e saggio sospiro, me ne andavo a letto, sereno, in pace, pronto al sonno dell’innocente. 

Tre giorni di questo genere ti fanno sentire anche un uomo solo, però. E infatti il quarto giorno due amici mi hanno chiesto se ero libero e se mi andava di fare qualcosa. “Certo che mi va”, ho detto felice di sentire i miei due amici di sempre. “Prendete tre birre e venite da me”. E allora, di sera, i miei amici si sono presentati a casa mia con tre lattine. Non che non li vedessi da tanto tempo (abitiamo vicini e li vedo più o meno tutte le settimane) ma quel giorno avevo voglia di stare con loro, di aggiornarli su alcune faccende, di giocare qualche partita con la Playstation e di fare quello che fanno tre amici che si conoscono da vent’anni. Abbiamo fatto dell’ironia sulla situazione politica italiana, abbiamo parlato del nuovo fidanzato di Elisabetta Canalis, di calcio, di film, di donne e di alcuni nostri conoscenti che non vediamo da un pezzo. Siamo stati bene, come sempre. A un certo punto, davanti ai miei amici, ho detto anche una volgarità e loro due, con me, sono scoppiati a ridere. E allora abbiamo detto altre volgarità, ridendo e sbagliando congiuntivi. A fine serata, quando gli amici se ne sono tornati a casa, io mi sentivo meno solo, più felice ma anche un po’ scemo. Non percepivo più quell’”armonia con me stesso e la vita” di cui vi parlavo prima. Avevo smesso di fare pensieri lucidi ed equilibrati. Non mi sentivo nemmeno più calmo. Prima di andare a letto mi sono addirittura dimenticato di guardare le bellissime stelle in cielo e di fare il sospiro da uomo saggio. 

Ecco, adesso, mentre scrivo, penso che i miei genitori, quando ero piccolo, non dovevano dirmi “stai attento alle cattive compagnie” ma “stai attento alle compagnie”. Loro, questo, giustamente non l’hanno fatto, perché erano genitori e non terroristi. Bene così, quindi. Però, adesso che sono diventato grande, penso che frequentare gente (anche se in gamba e intelligente come i miei due cari amici) peggiora un pochino le persone. Si diventa un po’ scemi. E non è detto che sia un male, sia chiaro. Ora che la libreria sta affondando, sto facendo pensieri strani. Ad esempio, mi chiedo come staremmo se tutti i lettori d’Italia decidessero di non frequentare le fiere dei libri o i vari festival della letteratura. Mi chiedo se anche in quelle occasioni, tutta quella gente insieme non diventa un po’ più stupida e meno lucida, come capita a me (e non è detto che capiti anche a voi, ci mancherebbe) quando vedo i miei amici. Insomma, mi chiedo come starebbero la nostra cultura e la nostra editoria se quelli che si definiscono buoni lettori non si frequentassero più, e decidessero di leggere libri e basta, a casa loro. Come staremmo se la smettessimo di comunicare, di confrontarci e di scambiarci idee durante le belle e pregevoli manifestazioni culturali.

sabato 17 agosto 2013

Sei anni più o meno

del Disagiato

(Questo è un post che ho scritto e pubblicato tanto tempo e cioè il 26 novembre del 2011. Davvero non so se sia elegante riproporre pezzi vecchi - che molto probabilmente hanno perso un po' di sapore e di attualità - ma in questi giorni ho ripensato a certe tattiche e vie di fuga che mi stavano, una volta, fisse in testa; e dentro di me, quindi, sono ritornate a galla queste righe. Perdonate, se potete, questo mio mettermi sulle punte dei piedi per vedere meglio la sagoma di ciò che è rimasto indietro. Non penso sia nostalgia.


Una mia collega non c'è più, cioè nel senso che ha presentato le dimissioni, che ci ha salutati tutti quanti e che è andata a guadagnarsi la pagnotta in altro modo. Nei negozi del centro commerciale tutti i giorni c’è gente che riempie gli scatoloni e che se ne va lontano. Per sempre. Allora arrivano facce e atteggiamenti nuovi e via che la giostra ricomincia a girare con i suoi arrivi e con le sue partenze. In tutti i posti di lavoro è così o sbaglio? Quando sei anni fa circa pure io cominciai a vendere libri pensavo che presto me ne sarei andato. “Lavoro per pagarmi gli studi”, pensai il giorno in cui feci il colloquio di lavoro. “Guadagno qualche soldo mentre cerco la strategia giusta da utilizzare là fuori, nel mondo”. Poi il tempo e la pigrizia mi hanno fatto dimenticare che stavo cercando una strategia (e cosa diavolo è una strategia?), poi sono andato a vivere da solo, poi ho smesso di studiare, poi ho cominciato a spingere carrelli all’Esselunga ed eccomi qua a contare gli anni che mi stanno alle spalle: sei anni, più o meno. E intanto molti altri, che erano entrati con me nella mischia del centro commerciale, se ne sono andati per mettere in pratica teorie che avevano in mente da anni.

E questi, a volte (ultimamente moltissime volte), passano davanti alla libreria per farmi ciao ciao con la manina o entrano per dirmi che alla fine si sono laureati, che viaggiano molto, che guadagnano più di prima, che si sono sposati e per dirmi che, insomma, là fuori il mondo non è proprio così bello ma comunque meglio del centro commerciale. “Madonna”, mi dicono, “tu è da sei anni che sei qua”. “Più o meno”, rispondo io. E questa cosa me la dicono, non so se avete presente, alzando il labbro superiore, digrignando un po’ i denti, spalancando gli occhi, come se mi stessero dicendo “guarda che hai una spaventosa cacca di uccello sulla spalla”. Ecco, me lo dicono in questo modo. E io allora faccio la faccia acquosa, priva di espressione e dico “Eh, sai com’è…”. Già, sai com’è, non ricordo più quale strategia avevo in mente. Ero venuto qui per attaccare la vita a morsi e invece mi sono ritrovato a nascondermi dietro i pali.

L’altro ieri un’amica ha cominciato a lavorare in uno dei tanti centri commerciali di Brescia e mentre attorno a noi c’era gente che rideva e si divertiva (eravamo in un locale davvero troppo elegante per i miei gusti) e aveva moltissime cose da dirsi, lei mi ha detto: “Che tristezza il centro commerciale. Anche tu è da tanto che lavori in libreria o sbaglio?”. E dopo avermi chiesto questa cosa si è messa a fissare tutta quella gente che rideva e si divertiva. “Eh, sai com’è”, le ho detto incapace di aggiungere altro. Allora, come una piccola ossessione, mi sono messo ancora a pensare alle strategie perse per strada, ai buchi nella rete che è da tanto di quel tempo che ho smesso di cercare. E intanto io e lei guardavamo tutta quella gente scappata dal recinto, allegra, sorridente, pettinata bene. Da sei anni più o meno che sono lì, mi sono detto di nuovo. E ho dimenticato le mie strategie, ho perso di vista i buchi attraverso i quali si può andare di là. Di là dove? Cosa c’è di là? Boh, non lo so cosa c’è di là.

Adesso però devo spegnere il computer, vestirmi e andare, come faccio da sei anni più o meno, in negozio, altrimenti mi telefonano per chiedere il motivo del mio ritardo. E a me non piace arrivare in ritardo.

venerdì 16 agosto 2013

Strano davvero

del Disagiato

In questi giorni, in libreria, alcuni operai stanno smantellando una parte del negozio: via libri, via scaffali, via insegne, via lampade e via addirittura la parete che separava il reparto dedicato ai libri per l'infanzia dal nostro magazzino (e in questi giorni, quindi, non abbiamo più un magazzino dove mangiare o passare i minuti della nostra pausa). Ho notato che io e i miei colleghi non siamo tristi, ma curiosi e un poco increduli. La tristezza, invece, la stiamo elaborando o risolvendo tra le stanze di casa nostra, con amici e parenti. I clienti ci chiedono se stiamo ristrutturando il locale. “No, stiamo chiudendo”, rispondiamo con un piccolo sorriso, e loro se rimangono a bocca aperta qualche secondo, rifanno la domanda, riascoltano la nostra risposta e poi reagiscono a modo loro. Molti non dicono, come ci saremmo aspettati, “peccato” o “mi dispiace” ma “strano”, a bassa voce, guardando noi e poi la libreria che lentamente sta evaporando come acqua al sole. Già, strano che l’unica libreria della zona e del centro commerciale debba o voglia chiudere. Poi ci sono i clienti affezionati, quelli che entrano in libreria da sempre, che una volta sapute le ragioni di questo smantellamento ci chiedono i veri motivi che stanno alla radice; e poi, prima che riusciamo ad aprire la bocca, i  motivi (gli ebook, la crisi e via dicendo) ce li elencano loro, come per dire che sì, prima o poi la chiusura della loro libreria di fiducia se la aspettavano. Tutti i giorni sui giornali o in televisione si parla di librerie che chiudono oppure no?

I clienti più che affezionati, quelli che vediamo tutti i santi giorni dopo il loro orario di lavoro, ci hanno confidato che per loro questa libreria è l’unico luogo di tranquillità. “Esco dall’ufficio, vengo qui e mi riposo”, mi ha detto una signora che oramai conosco bene. “Come farò adesso?”, mi ha chiesto. “Ci sono altre librerie”, ho detto per consolarla e lei, molto gentilmente, mi ha risposto che “non sarà mai la stessa cosa”. Ho sorriso e lei mi ha guardato con occhi resi grandi dall’incredulità e dal dispiacere. Insomma, per questi clienti la libreria dove ho lavorato per otto anni circa era un posto dove staccare la spina, riposare, rilassarsi, liberarsi di un peso, passeggiando tra i volumi, conversando, a volte, con noi o con altri clienti che erano lì per gli stessi motivi. A questi clienti vorrei dire che mi dispiace per loro e per la libreria e per tutti noi che ci siamo dati da fare per tenerla in piedi, ma invece non dico e non diciamo niente di veramente importante. Sorridiamo. In queste ore, in negozio, sorridiamo e basta, e ai sorrisi sappiamo allegare solo poche parole e un poco di silenzio. Guardiamo gli operai che là in fondo fanno rumore e portano via lamiere, polvere, plastica, vetro, rimasugli di carta e detriti. Perché soprattutto di queste cose era fatta la nostra libreria. 

martedì 13 agosto 2013

I nostri luoghi

del Disagiato

La storia che leggete nel libro Alta fedeltà di Nick Hornby si svolge a Londra ma io, mentalmente, mentre leggevo, la svolgevo a Brescia. Il libro Saper perdere di David Trueba si svolge a Madrid ma io, mentre lo leggevo, chissà perché, i personaggi li facevo camminare e sperare per le strade e le case di Siviglia. Uomini e topi di John Steinbeck è ambientato in California ma io, invece, l’ho ambientato in una fattoria della campagna bresciana. Il bellissimo romanzo Le rondini di Kabul di Yasmina Khadra ("Le terre afghane sono solo campi di battaglia, deserti di sabbia e cimitero. Le preghiere si infrangono nella furia dei mitra, ogni sera i lupi ululano alla morte e il vento, quando si alza, affida il lamento dei mendicanti al gracchiare dei corvi"... mi vengono ancora gli occhi umidi), l’ho fatto partire e terminare, nella mia silenziosa lettura, in un posto qualsiasi dei Balcani. Sulla strada di Kerouac scorre lungo una lunghissima strada del Portogallo; Piattaforma di Michel Houellebecq non passa, per me, da Parigi alle spiagge di Pattaya, ma da Milano alle spiagge andaluse. Gli amori e le vite nei racconti di Carver si logorano negli Stati Uniti ma con il fiato trattenuto io me le immaginavo tutte quante nelle cucine e nei salotti di casa mia, di tutte le case che ho abitato per pochi o tanti anni. Se questo è un uomo è ambientato all’interno di un campo di concentramento ma io l’ho ambientato fuori da un campo di concentramento. Delitto e castigo si svolge a Cellatica, che è un piccolo paese di Brescia e Il nuovo testamento l'ho messo nell'America del sud. Potrei andare avanti a raccontavi le mancate coincidenze geografiche tra me e le storie che stanno nei libri, ma mi fermo qua. Volevo solo dirvi che la letteratura, per me, è una cosa davvero strana. 

lunedì 12 agosto 2013

Per sempre

del Disagiato

Ci sono canzoni che sono come l’amore. Pensi che sia l’ultimo, l’amore definitivo di una vita, pensi che dopo non può esserci spazio, fatica e tempo per altro. “Ti amo”, dici. Ti amo, ti amerò per sempre. Poi, invece, di altro ce n’è ancora, e anche di spazio e di tempo e di fatica per amare. Ecco, così, a me, è capitato con alcune canzoni incontrate casualmente per strada. Sono canzoni che quando le ho conosciute ho pensato di non cercare più altre canzoni che potessero dirmi o darmi qualcosa. Oppure, visto che il mio sogno - una volta, tempo fa - era quello di diventare musicista, quelle canzoni mi hanno fatto abbandonare propositi: bene, adesso posso smettere di voler fare musica, di voler fare la canzone perfetta. Perché questa è la canzone che avrei voluto fare io. Ma l’ha fatta qualcun altro, e va bene così. Meno male… Capita anche con i libri, ovviamente. Quando qualche anno fa lessi "L’amore è sopravvalutato" di Brigitte Giraud, meditai seriamente di smetterla con la letteratura. “Ecco, questo è il libro che avrei voluto scrivere io”, mi dissi giunto alla fine, commosso. Non è il mio libro preferito, no, ma è il libro che tra venti o trent’anni avrei voluto scrivere io. La stessa dolcezza, la stessa prosa tagliente. Invece l’ha scritto una signora francese. Una volta mi è capitato con un post che s’ intitola Il post grigio milanese. Quando l’ho letto, ho pensato di chiudere questo blog. Il post che volevo scrivere l’ha già scritto un’altra persone. Basta così, quello che c’era da dire l’abbiamo detto. Invece, poi, si va avanti a cercare altri avvocati che ti difendano, altre parole che ti rappresentino o giustifichino.

Che non amo le classifiche, l’ho già detto. E infatti questa non è una classifica, ma un brevissimo elenco -facciamo cinque e non seguendo un ordine cronologico - di canzoni che quando le ho ascoltate ho pensato: adesso smetto di ascoltare musica, perché questa canzone mi ha già detto e spiegato tutto. Impossibile, anche, emozionarsi di più. Davvero impossibile.

venerdì 9 agosto 2013

La fine

del Disagiato

Questo è uno di quei post che non avrei mai voluto scrivere o, magari, che avrei voluto scrivere tra qualche mese o addirittura qualche anno. Ma il momento è giunto e mi sembra buona cosa, per me, informavi di quello che mi sta capitando. Dunque, la libreria chiuderà più o meno tra un paio di settimane. Qualche giorno fa ho firmato un documento che potrei sintetizzare con questa frase: Dal ricevimento della presente Lei dovrà considerarsi in preavviso contrattuale, per una durata pari a giorni 30. Insomma, licenziato. Il titolare ha lottato - così dice lui e non vedo perché non dovrei credergli - ma non ce l’ha fatta a tenere in vita un negozio che “non funziona più come prima”, e per "prima" intendo fino a quattro o cinque anni fa, quando vendevamo libri senza sudare. Al posto di questa libreria, tra queste stesse mura, ci hanno assicurato che non aprirà un’altra libreria. Ovviamente sono dispiaciuto per me, che rimango senza una fonte di guadagno, ma sono anche dispiaciuto per il negozio. Agli amici, clienti, parenti e conoscenti in queste ore sto dicendo la stessa cosa: era come fosse mia. Le ho voluto tanto bene, alla libreria, come ancora voglio tanto bene a tutte le librerie e a tutti i librai. Mi permetto di dire una cosa un po’ antipatica e ingiusta, e cioè che voglio più bene a quei librai che utilizzano, chi più chi meno, il loro tempo prezioso per descrivere l'affondamento e per raccontare quello che capita e si prova tra i libri, tra i clienti e – dai, lo dico – tra le cose che contribuiscono a fare la cultura. Anche se non sempre mi sono trovato d'accordo, li ringrazio per avermi imprestato la loro bussola nei miei non rari momenti di smarrimento.

Perché una libreria di un centro commerciale della Lombardia chiude? Il titolare, che è un imprenditore, dopo aver fatto i suoi conti avrà pensato che non gli conviene andare avanti. Il gioco non vale la candela, come si suol dire. Bene, la domanda si fa ancora più interessante: perché questa libreria non guadagna più come prima? Ma anche: perché moltissime librerie italiane stanno chiudendo? Le librerie, come già sapete, chiudono perché i canali per acquistare i libri si sono moltiplicati. E poi ci sono i libri non cartacei. Non solo in Italia ci sono pochi lettori, ma i lettori cosiddetti forti oggi acquistano via web. E poi, come dimenticarlo, c’è la crisi. I clienti non spendono come quattro o cinque anni fa, appunto. Forse il paragone non è dei più azzeccati, ma mi sembra che la stessa cosa sia capitata ai negozi di dischi: la musica ora la si va a prendere da altre parti. Ripeto, ammetto che il paragone non è dei più azzeccati, ma i negozi di dischi sono morti più o meno per gli stessi motivi. E io sono stato uno tra i boia, come negarlo. I tempi, quindi, sono cambiati e la libreria e i librai non sono più così necessari. 

Poi è successo che i librai non sono più riusciti a fare i librai. L’ho scritto, magari male, in questi anni. Io ho fatto il commesso, non il libraio. In negozio dovevo (dovevamo) badare all’apparenza – che è importante, ci mancherebbe – e sempre meno alla sostanza. Il tempo per convincere i clienti che ci stavano abbandonando che mettersi le scarpe, fare dei chilometri, parcheggiare ed entrare in libreria sono un'alternativa al comodo acquisto via web, non l’ho avuto. Organizzare la massa di libri che arrivavano, e ancora arrivano, ogni giorno, mi ha impedito di essere non dico un buon libraio – che quello, magari (magari), lo sono stato – ma di essere un ottimo libraio. E i librai dovrebbero sempre essere ottimi librai. Ho fallito, e sarei bugiardo se vi dicessi che l’ho capito solo ora. La colpa, se posso parlare di colpa, è ovviamente mia, ma anche delle case editrici che ci hanno tolto, letteralmente, la lucidità per ragionare, per fare e dire cose giuste e sensate. La colpa è poi del mio titolare, che non ha mai dato importanza alla competenza (a cosa può mai servire quando i clienti ci sono ugualmente?) e di conseguenza in questi anni ha assunto, anche se non sempre, librai volenterosi ma incompetenti, a volte in maniera agghiacciante. E i librai, per far “funzionare” una libreria, dovrebbero essere sempre librai competenti. La mia impressione è che siamo stati viziati. Per troppo tempo abbiamo incassato tanto denaro senza impiegare alcuna saggezza. E ora eccoci qui. Ora eccomi qui senza un lavoro e, soprattutto, senza una libreria dove poter fare un mestiere che mi piace davvero tanto. Sono stati, professionalmente parlando, anni belli e non potete immaginare il piacere che ho avuto nel raccontarli.