martedì 29 gennaio 2013

Gli altruisti

del Disagiato

Scrivo solo poche righe per dirvi che poco fa ho bisticciato (si fa per dire, naturalmente) con una mia collega su una questione secondo me decisiva. La mia collega è arrabbiata con suo padre perché non si fa curare una spalla che gli fa male da mesi. “Corre per gli altri, ma per lui non fa niente”, mi ha detto. Cioè, fa tantissimo per gli altri e nulla per se stesso. Si trascura, in parole povere. Io alla mia collega ho detto quello che penso e cioè che suo padre, come tantissime altre persone, non fa molto per se stesso proprio perché fa molto per gli altri. Questa cosa dell’altruismo estremo ed integralista è un mito, secondo me. Una persona che fa tanto per la famiglia, gli amici, il datore di lavoro, i poveri eccetera, non ha più l’energia e il tempo per fare altro. E quindi si trascura. Un essere umano non può fare tutto. Vorrebbe curarsi, applicare una buona manutenzione al suo corpo e alla sua anima, ma non può perché è stanco. Non è masochismo, ma sfinimento. Una buona soluzione, ho detto alla mia collega, è quella di rifiutare un po’ del loro aiuto. Di fare da soli, di arrangiarsi, di non telefonare e di non rispondere alle loro telefonate.  

Insomma, volevo raccontarvi questa cosa che mi è capitata oggi in libreria. Non si sa mai. Magari anche voi, come la mia collega, credete nell’esistenza delle persone nate per essere buone.

... ci saremo anche sbagliati

del Disagiato


Che cosa vede uno scanner? Vede dentro la testa, vede dentro il cuore, vede dentro di me, dentro di noi. Vede in modo chiaro e oscuro. Spero che veda in modo chiaro perché io non riesco più a vedere dentro di me. Io vedo solo tenebre. Spero per il bene di tutti che gli scanner vedano meglio, perché se lo scanner vede solo in modo oscuro così come me, allora sono dannato, dannato per sempre. E in questo modo finiremo per morire tutti, conoscendo poco o niente, e sul quel poco che conosceremo ci saremo anche sbagliati. Cita a memoria, lasciandomi di pietra, il cliente esperto di libri di fantascienza. “Lo riconosci?”, mi chiede. E io riconosco la citazione. La riconosco per pura fortuna, per puro miracolo, e non tanto perché di libri di fantascienza ne ho letti tanti, ma perché di libri di fantascienza ne ho letti pochi. E quei pochi mi sono rimasti appiccicati addosso. E poi, a dirla tutta, questo è un brano tratto dal film "A scanner darkly", che a sua volta è tratto da un romanzo di Philip Dick. Al cliente dico tutto quello che so, e ora è lui a rimanere di sasso. Ci stiamo parlando addosso, siamo patetici. In libreria capita che cliente e libraio si riducano a darsi pacche sulle spalle, a passarsi la palla fino allo sfinimento. Il cliente e il libraio s’intendono, a volte, molto raramente; e la giornata, allora, è fatta. Racconto al cliente che ho cominciato a leggere i libri di fantascienza dopo aver visto quel film che lui ha tirato fuori dal nulla. “Mi sono innamorato di Philip Dick”, ammetto con gli occhi rossi. E lui, che lo conosce bene, dice che sì, che è un grande scrittore, uno con la vista lunga. Allora gli racconto di aver appena terminato "Cronache del dopobomba" e di essermi accorto che in quel romanzo Dick aveva già in mente internet, la rete, le connessioni. “Vero", mi conferma il cliente, “è stato profeta”.

Non so se "Il mondo nuovo" di Aldous Huxley sia fantascienza ma a me sembra di sì. E anche questo lo dico, lì, in negozio, con "Il mondo nuovo" in mano. E pontifico su quel romanzo che prevede una società in cui non si soffre, e per non soffrire ci si appiglia a una droga distribuita dallo Stato, chiamata Soma. Perché lo Stato vuole che il popolo sia felice, che non soffra, che non si lamenti, che non metta bastoni tra le ruote. Però un personaggio che soffre c’è, ma è la pecora nera del romanzo. “Ci stiamo avvicinando a quel mondo?”, chiedo. “Per me sì”, mi risponde il cliente. A questo punto, visto che in negozio non c’è gente, possiamo ancora celebrare la lungimiranza della fantascienza. "1984" di Orwell è un libro di fantascienza? Certo che lo è: predice, annuncia, minaccia, profetizza. Orwell è uno scrittore che si è messo in punta di piedi per vedere oltre il presente, al di là. Ecco, io e il cliente ci diciamo queste cose con una competenza ancora tutta da calcolare e stabilire. Elogiamo e celebriamo la fantascienza e stabiliamo che la fantasia funge da binocolo: si guarda lontano, si prevedono le nuvole nere che porteranno tempesta. Quante cose ha azzeccato Philip Dick? E Orwell? Poi, visto che abbiamo ancora energia e non siamo stati abbastanza sbrodoloni, cerco di ricordarmi una frase di Huxley: “Tra il desiderio e il suo soddisfacimento ci stanno di mezzo i sentimenti”. Insomma, più è corta la distanza tra il desiderio e il suo soddisfacimento, meno sentimenti proviamo. “Un giorno sarà cosi, non proveremo più niente. E avremo paura dei sentimenti”, mi dice il cliente prima di stringermi la mano e andarsene. Il cliente che sa a memoria un bellissimo monologo tratto da un film magnifico.

sabato 26 gennaio 2013

Il primo film di Leonardo Pieraccioni


del Disagiato

Qualche sera fa, davanti alla televisione, ho smesso di girare canale quando ho incontrato un film di Leonardo Pieraccioni, I laureati. È, se non sbaglio, il suo primo film: anno 1995.  Penso di averlo visto dall’inizio alla fine due volte: una volta al cinema, quando uscì, e una volta sempre in televisione, pochi anni dopo. Il regista, allora, era un esordiente con delle buone idee, e in effetti, secondo me, questo film è più che gradevole. Insomma, l'altra sera, riguardando il film, oramai vicino alla conclusione, ho notato che I laureati è un film lento. I personaggi pensano, parlano e pensano nella stessa scena, senza che accada nulla nel frattempo. Ci sono momenti di silenzio, e a volte questi momenti di silenzio si espandono, durano. La macchina da presa si adagia per parecchi secondi su un volto o sui protagonisti nel loro appartamento. Sono addirittura arrivato a pensare che il film che stavano trasmettendo avesse dei problemi. Invece no. Era semplicemente, ripeto, un film lento, in cui i personaggi vengono ripresi nell’atto di pensare, parlare e ancora pensare. Tutto nella stessa scena, nella stessa inquadratura. Come se noi spettatori avessimo un sacco di pazienza e concentrazione da dedicare a un film come questo. E questo è un film di Pieraccioni, non di Igmar Bergman e nemmeno di Michael Haneke.

Sono passati quasi vent’anni, da allora, e i film di Leonardo Pieraccioni, o alla Pieraccioni, adesso, per quel poco che ho visto, sono veloci, hanno messo il turbo. Un personaggio parla e poi un altro personaggio parla e poi ancora un altro personaggio parla. Si parla molto e le inquadrature si accavallano. O almeno, sia chiaro, questo è il mio vedere. In questi anni o è successo qualcosa a me o è successo qualcosa al cinema di Pieraccioni. Uno dei due a un certo punto deve aver schiacciato l’acceleratore, deve aver cominciato a correre come un corridore che vuole vincere a tutti i costi. Io penso un paio di cose. Penso che la metafora del corridore sia un po’ da incompetenti però non ne ho in mente altre, di metafore, altrettanto efficaci per spiegarmi. E penso che pure quel primo film di Pieraccioni era, nel 1995, un film che correva o che voleva correre. Magari voleva far sorridere e non ridere, ma aveva comunque la pretesa di essere decisamente più spigliato e vivace rispetto a quelli che chiamiamo “film d’autore”. Nonostante questo, la storia scorreva diversamente, forse in modo più elegante, dandoci un po’ più di tempo e spazio per comprendere. Perché c’era qualcosa da comprendere e, forse, avevamo la voglia di comprendere. Poi, durante questi diciotto anni, deve essere successo qualcosa. 

giovedì 24 gennaio 2013

La stupidità


del Disagiato

In libreria, si sa, ci sono tanti libri stupidi, frivoli, troppo leggeri, vergognosi e commerciali. Me l’ha ricordato un'amica, Sara, qualche sera fa, durante una bella passeggiata per le fredde strade del centro storico di Brescia, dopo mesi di distacco e silenzio. Sara ha scritto tre libri, due pubblicati da una piccolissima casa editrice bresciana e uno “autopubblicato”. La sua vita è da tanti anni un libro da scrivere e pubblicare. “E tu, quando scrivi un libro?”, mi ha chiesto lei, e io le ho risposto che al momento mi bastano i libri che stanno sugli scaffali della libreria. Così Sara mi ha confidato di non entrare più in una libreria da un sacco di tempo. “Ormai leggo tutto sul mio tablet”, mi ha detto. E poi mi ha dato anche una spiegazione non richiesta: “Non entro più nelle librerie perché le librerie, oggi, vendono essenzialmente libri frivoli e stupidi”. Io non ho potuto negare, quindi ho mosso la testa su e giù. Già, i libri stupidi e le librerie che ne sono piene. Sono d’accordo. Ma cosa sono i libri stupidi? Come si fa a dire che un libro è frivolo? Cos'è un libro frivolo? Secondo Sara, il 2012 è stato il libro delle “cinquanta sfumature”: Cinquanta sfumature di grigio, Cinquanta sfumature di nero e Cinquanta sfumature di rosso. “Ho provato a leggere il primo”, mi ha detto lei indignata, “e quasi vomito”.

In effetti ha ragione lei, il 2012 ha conosciuto il suo fenomeno: Cinquanta sfumature di grigio, con gli altri due, naturalmente. Romanzi che, mea culpa, non ho letto ma che posso immaginare stupidi, frivoli, leggeri e vergognosi: una storia d’amore non credibile, impossibile, ai limiti, irreale, consolatoria, così me l'hanno descritti certi clienti. Anche le recensioni serie ne parlavano male ma, nonostante questo, i tre titoli se ne sono stati in cima alle classifiche per molte settimane. Sara, poi, ha aggiunto che qualche mese fa una blogger e scrittrice italiana, Rossella Calabrò, ha pubblicato una “degna risposta” a questi tre libri: Cinquanta sbavature di Gigio. E poi, recentemente, ne ha pubblicato un altro: Cinquanta smagliature di Gina. “Molto divertenti e realistici”, mi ha detto Sara sorridendo.

martedì 22 gennaio 2013

Il cielo basso


del Disagiato

A Óbidos, in Portogallo, ci sono andato a ottobre, partendo da Nazarè, con il suo mare ancora negli occhi, in pullman. Un amico mi aveva detto: “Vacci, a Óbidos, vedrai che ti piacerà”. E allora io ci sono andato, prima di proseguire per Lisbona (due orette di viaggio) e anche prima di addentrarmi nell’Alentejo per raggiungere Evora. Il centro storico di Óbidos è circondato da mura merlate, è piccolo come può essere piccolo un quartiere fatto di strette strade acciottolate e sconnesse, e in cima a una collina ha pure un castello che venne costruito nel XIII secolo. In quel posto ci stavano i romani, una volta, e poi anche gli arabi e poi ci hanno vissuto re e regine. Oggi ci vivono pochi turisti e pochi autoctoni. Ogni tanto, lungo quelle stradine strette, passano i cavalli, e allora i turisti si scansano, si guardano e ridono. “Ma cosa ci fanno dei cavalli in questo posto?”, si chiedono. Le case ai lati delle stesse stradine sono basse e bianche e quando c’è il sole gli occhi diventano delle fessure, per ripararsi dai riverberi e non lacrimare. A Óbidos, sempre nel suo centro storico, appena sotto il castello, c’è anche una piccola chiesa che una volta era un tempio visigoto che poi è diventato una moschea che poi, appunto, è diventata una chiesa. Bellissima, dovreste vederla. Dentro questa chiesa ci sono alcuni dipinti di una famosa pittrice del XVII secolo che si chiamava Josefa: Josefa de Óbidos. Un cartello appeso fuori dalla chiesa (ma anche la guida turistica che ho portato con me) fa notare che a quei tempi erano poche le pittrici famose, poiché le donne, allora, avevano poco spazio “nel mondo dell’arte”. Suo padre era un pittore affermato e più che altro era ricco e rispettato. E forse è per questo che anche lei ha avuto un po’ di spazio "nel mondo dell’arte", mi sono detto davanti a un quadro di Josefa.

Insomma, Óbidos è un bel posto. Andateci, se vi capita. Nulla di eccezionale, sia chiaro, però, ecco, un salto lo farei. Però solo se avete tempo. Il centro storico è carino e anche le strade acciottolate e la chiesa e il castello, però se avete progetti più sostanziosi non fatelo, tirate dritto. Fatelo solo se avete tanto tempo da perdere, come l’avevo io. Ero in Portogallo, avevo qualche soldo in tasca, tempo a disposizione e allora sono andato a Óbidos. Però, ripeto, il posto non è nulla di straordinario: ci sono case, strade labirintiche e un castello. Come in mille altri posti. Andate nella bellissima Lisbona, andate a sud, immergete il vostro corpo nell'oceano, fate quello che vi pare, se non avete tempo e voglia. Vi capisco. La vita dura poco, quindi perché mai sprecare ore e giorni per cose così? Perché mai soffermarsi sui dettagli, su ciò che è marginale?

domenica 20 gennaio 2013

I libri di Mario Sconcerti

del Disagiato

L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata follia. Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case. Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria. 

E fu amore, un colpo di fulmine. Questo è un brano del primo capitolo, Il viaggio, del libro Se questo è un uomo, libro che avrebbe dovuto raccontarmi vicende distanti (nel tempo) e incredibili. E invece furono vicinissime e credibili. Successe che da lì in poi Primo Levi raccontò, e continua a raccontare, di me e di quello che sarei potuto diventare se non fossi stato un uomo buono e giusto. “Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera” scrive più avanti Levi. E pure io, lettore che vivo sicuro nella mia tiepida stanza, lettore che trova tornando a casa il cibo caldo e visi amici, faccio mia questa priorità: arrivare a primavera. Come un internato, pur non essendolo. Concluso il libro, compresi che si parlava di perseguitati anche per parlare di me, di mio padre, del mio vicino di casa e dell’edicolante in fondo alla via. Chiuso il libro, per la prima volta decisi di diventare un essere umano. Ci sono scrittori, ecco cosa volevo dire, che ci piacciono non solo per come sono fatti ma per come si muovono. Non per quello che dicono ma per come lo dicono. Riducono le distanze, si avvicinano a noi. Il passo che voglio fare ora è azzardato, il paragone quasi vertiginoso.

Mario Sconcerti, naturalmente per chi ancora non lo conoscesse, è un giornalista e opinionista sportivo. Scrive, poco, per il Corriere della Sera ed è ospite fisso di un programma sportivo di Sky Sport. Ha scritto libri bellissimi: Storia delle idee del calcio, La differenza di Totti e, uscito poco più di un mese fa, Il calcio dei ricchi. Ci sono poi anche altri libri (uno su Roma e Romolo, che nulla c’entra con lo sport) e, come avrete capito, scrive di calcio. Solo che non scrive esclusivamente di calcio. Il pallone, i giocatori, le tattiche, gli schemi, i soldi e le scelte sono, nei libri di Sconcerti, una conseguenza delle scelte che abbiamo fatto noi, più o meno tifosi, nel mondo, nella nostra società, nella nostra casa e nella nostra stanza. Nei suoi libri si parla di noi come punto di partenza per arrivare sui campi da gioco, sugli spalti, sulle panchine. Una nazionale di calcio è, sostiene Sconcerti, come è il suo popolo: gioca in difesa (ad esempio la Germania che esce dalla guerra) se il suo popolo è, in quel momento, sulla difensiva; gioca in modo estroso (il Brasile), se il suo popolo è caloroso e per nulla timido; se una nazione è felice gioca un calcio felice, se una nazione è triste gioca un calcio triste. Il calcio nasce e fiorisce dove c'è il mare, dove ci sono commercianti e marinai.

venerdì 18 gennaio 2013

Usate la carrozza, non l'automobile

del Disagiato

Vi dico una cosa ma, per favore, poi tenetela per voi: la libreria in cui lavoro presto chiuderà. Vi dico di non spargere la voce solo perché il mio titolare ci ha detto di non spargere la voce. Certe trattative potrebbero saltare, dice lui. E cosa intenda, io non l’ho proprio capito. Di sicuro, però, lui vuole chiudere. Tra due o tre mesi, forse. Magari tra un anno. Ci sono contratti d’affitto da rispettare. E poi, magari, al suo posto arriverà un’altra libreria che deciderà di tenerci tutti quanti, senza licenziamenti e nuove assunzioni. Come può un centro commerciale, oggi, stare senza una libreria? La notizia della chiusura naturalmente mi ha messo in corpo un intenso brivido. Però, ripeto, c’è ancora tempo da qua alla saracinesca da abbassare. E poi, ci diciamo noi commessi (o librai), arriverà un altro titolare con un’altra libreria. Non fasciamoci la testa, ci diciamo ancora in negozio, per non piangere. Rischiamo noi, come stanno rischiando altre librerie a Brescia, a Milano e in tante altre città del nostro paese. Le librerie storiche chiudono a Firenze. Hoepli per il momento manda in cassa integrazione 60 dipendenti. Poi si vedrà. 


Volevo dire, a proposito, che io non so se la colpa o il motivo di queste chiusure sia della crisi economica. Non ne sono sicuro. Sicuramente la gente non spende i soldi come prima, come due o tre anni fa. I libri non stanno nella lista delle priorità. Ci sono le biblioteche, ci sono anche i siti internet che vendono romanzi a prezzi interessantissimi e quindi perché mai prendere la macchina e venire in libreria? Tempo, benzina e soldi che se ne vanno. Poi ci stanno i libri elettronici. In questi ultimi mesi in negozio ne ho venduti tanti. “Vendiamo il nemico”, dico solitamente ai clienti. E i clienti ridono, mi trovano simpatico per questa bella battuta. Ma non è una battuta. È la tragedia che si traveste da barzelletta. 

mercoledì 16 gennaio 2013

Al lavoro, in treno

del Disagiato

Ieri, dopo pranzo, per andare a lavorare, sono andato in garage, sono salito in macchina e, girata la chiave, il motore ha preso a tossire e a sussultare. Ho fatto passare un paio di minuti e poi ho riprovato ancora ad accendere. Ma niente. La macchina stava peggio di prima. Che fare? L’unica cosa da fare era prendere un treno che mi portasse a Brescia e poi da Brescia un autobus che mi portasse quasi davanti al centro commerciale. Così, di umore nero, mi sono incamminato verso la piccola stazione del mio paese, che non è poi così vicino a casa mia. Ho anche telefonato in negozio per avvertire che sarei arrivato in ritardo. “In ritardo di quanto?”, mi ha chiesto la mia collega. “Ancora non lo so, dipende dal treno”, ho risposto dispiaciuto e lei, dopo tre secondi tesi e silenziosi, mi ha detto “Vabbè, ti aspettiamo”. Vabbè, aspettatemi, ho pensato seccato. Una decina di minuti dopo, in stazione, ho guardato l’arrivo e la partenza del treno per la città: tredici e cinquanta. Visto che più o meno erano le tredici e trenta, avrei dovuto aspettare una ventina di minuti. Ho cavato dalla tasca il telefono, ho chiamato in negozio e alla mia collega ho detto che se tutto andava liscio sarei arrivato alle tre. Più o meno per le tre, minuto più, minuto meno. Che cosa ci potevo fare?


Una volta fatta la telefonata, sono entrato in una piccola sala d’aspetto, insieme a una signora e a un ragazzo, che se ne stavano lì seduti, muti. Io ho salutato, loro mi hanno risposto con un bel sorriso e poi mi  sono accomodato su una panchina, non tanto distante da loro. Siamo rimasti in silenzio ad ascoltare il rumore delle foglie trascinate dalle macchine che passavano sulla strada principale. 

lunedì 14 gennaio 2013

Che succede?

del Disagiato

L'altro giorno, in libreria, un corriere ha portato trentaquattro scatole piene di libri. Siccome una mia collega è in vacanza e un’altra ha deciso di non venire più, ero da solo ad affrontare scatole, taglierini, soldi, fax, mail, telefonate e carta. “Ma li leggi tutti te questi libri?”, mi ha domandato il corriere, e io ho fatto un bel sorriso, ho preso la ricevuta che lui mi ha messo in mano, l’ho firmata, ho salutato e poi, così, solo per scippare al trascorrere del tempo un po’ di nuova energia, mi sono fermato e ho guardato il negozio. Che era vuoto. C’eravamo io e le scatole, e basta. E allora come mai così tanta carta per fare i libri? E allora come mai così tanta benzina per i camion per portare i libri? Tanti libri, tutti i giorni; pochi clienti, tutti i giorni. Ecco, lì in negozio, fermo, in mezzo al buon odore di carta e inchiostro, pensavo a quella contraddizione per me così ben visibile e demenziale. 

E siccome a me piace tanto la Spagna, mi è venuta in mente una delle cause (o conseguenze?) della crisi spagnola: in Spagna hanno costruito tante, troppe case ma ne hanno vendute poche. Questo, dicono, ha quasi portato al fallimento le banche. Io, naturalmente, ho riassunto rozzamente ciò che ho letto su alcuni giornali: tante case, pochi acquirenti. Chissà, poi, se per davvero è da questa sterile sovrapproduzione che sono partite le profonde radici della crisi. Magari i motivi sono altri e magari questa cosa delle case e della Spagna non c’entra niente con i libri che arrivano tutti i giorni e con i clienti da troppo tempo latitanti. Però l'altro giorno ho preso un po’ di paura e mi sono fatto delle domande: Cosa sta succedendo all’editoria? Ma qualcuno, là, dove ci sono le stanze dei bottoni, si sta rendendo conto che si stampa più di quello che si dovrebbe stampare? Quanto c’entra tutto ciò con la nostra felicità?